sabato, maggio 22, 2010

Your own kind of music


Nelle università, da circa tre millenni, intorno agli alberi più ombrosi si tengono dei corsi che spiegano come una storia deve essere scritta: dei tizi attempati ma ancora velatamente brillanti sviscerano le tecniche necessarie a far si che l'interazione tra Achille ed Ettore intrighi il lettore, coinvolgendo nella vicenda pulzelle, traditori e vittime sacrificali, in modo da assemblare il giusto numero di pagine, o puntate.

Temo di non potervi dire nulla di più scentifico o preciso sull'argomento. Come voi, non so cosa renda veramente bella una storia.

Le storie veramente belle hanno ai miei occhi forme fumose, si aggirano tra i palmizi animate da motivazioni oscure. Richiedono sacrifici regolari e ritmati davanti ad una tastiera, senza dare spiegazioni o certezze riguardanti il lieto fine.

Spesso le storie tradiscono, come amanti capaci di idiomi celati, tirando in ballo qualche magia in luogo di qualche soddisfacente sequenza logica. Spesso si adeguano a qualche dettame barbaro riguardante il budget, producendo capitoli scialbi ripieni di dentisti e pozzi di polistirolo.

Forse in un universo parallelo tali delusioni non sussistono: magari colà uno scozzese scorrazza in lungo e in largo provocando solo felicità e collassi quantici, ma non c'è bisogno di smuovere le galassie per dare vita a storie indimenticabili.

Bastano dei duellanti davanti ad una sedia vuota, una testina che slitta sul vinile a causa di una visita inattesa, una parete ripiena di graffiti che appaiono solo al buio, un prete impostore pieno di fede, posto davanti ad un enorme punto interrogativo.

Bastano un dottore, un truffatore, una fuggitiva, un miliardario, un paraplegico, un torturatore, una coppia tribolata.

See ya in another life, brothas.

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