sabato, luglio 05, 2014

The Fusion

Alla fine del 2013, Roger avrebbe potuto ritirarsi. Mettetevi nei suoi panni: eliminato nei turni preliminari degli ultimi tre slam, sconfitto dai top ten in tutte le partite che contavano, dominato negli scontri diretti dalla sua nemesi.
Il nostro, osservando il paesaggio di Bottmingen dalle ampie vetrate della sua villa, ha alle sue spalle due gemelle che si rincorrono sul parquet, una moglie che pensa già a dei fratellini, una fortuna accumulata tramite gli sponsor e uno scaffale in cui un impressionante affollamento di trofei sottolinea come non ci sia più nulla da vincere, è tutto lì.
Licenziato Annacone, lo storico allenatore di Sampras, Roger ha capito che il suo gioco non può subire ulteriori rifiniture. A tradirlo è l'età, l'impossibilità di vincere gli scontri a fuoco più lunghi di tre set. Non è bastata la nuova racchetta, non è stato sufficiente guarire la schiena, perché tormentarsi con estenuanti allenamenti mattutini? Per racimolare una manciata di giochi nei quarti di finale? Per un ultimo applauso di commiato?

Roger si avvicina al telefono. Basterebbe una chiamata e gli addetti alle pubbliche relazioni informerebbero stampa, sponsor e associazione giocatori dell'avvenuta decisione. Un bel messaggio di addio, una intervista fiume alla BBC e poi una dolce pensione, spesa guardando le finali da Royal Box, impugnando un calice di Perrier Jouet al posto della Pro Staff.
Roger si avvicina al telefono, apre l’agenda, compone un numero.

Quello di Stefan Edberg.




Stefanello, sul campo e fuori, era un signore. Un distinto e bellissimo scandinavo sempre educato con arbitri, guardialinee, raccattapalle. La sua più focosa lamentela ebbe luogo al Roland Garros, quando un lob di Jim Courier lo scavalcò su una fondamentale palla break finendo abbondantemente fuori. Il guardialinee distratto non se ne accorse. L’arbitro pavido non ebbe il coraggio di correggere la chiamata su un punto così importante. Stefanello, dopo aver identificato con precisione il punto di impatto, volse lo sguardo verso quest’ultimo e gli chiese “Are you sure?”

Questa signorilità si rifletteva nel suo gioco, composto da un servizio in kick che non impediva agli avversari di rispondere, ma si limitava a rallentarne l’azione. Il suo splendido rovescio ad una mano colpiva indistintamente di piatto, arrotato o tagliato, ma non poteva compensare un diritto sgraziato, effettuato con una presa chiusa, che nella migliore delle ipotesi restituiva palle lente e lunghe. D’altronde tutto il gioco di Stefan puntava ad una cosa e una soltanto: permettergli di scendere a rete.
La locuzione “scendere a rete” indica però una serie di pratiche motorie che poco si addicono al modo in cui Stefanello si avvicinava al net, perché lo svedese non si limitava a correre in direzione dei suoi avversari. Stefanello volava. Con tre impalpabili passi giungeva nei pressi della rete e lo faceva sulle sue prime, sulle sue seconde e sui servizi avversari. L’antagonista gli serviva un bolide? Lui rispondeva in chop una palla lenta e profonda, quindi spiegava le sue angeliche ali, visibili solo agli osservatori più attenti, e “scendeva” a rete.

Una volta giuntovi risultava insuperabile, dominando longitudinalmente l’intero campo. Inutile tirargli missili nei piedi, lui li intercettava all’altezza delle caviglie e li indirizzava nell’angolo lontano del campo. Vano sparargli dei colpi di mortaio da distanza ravvicinata. Scavalcarlo con dei pallonetti? Un suicidio consapevole.

Per Stefan il Tennis era uno sport da tre colpi: servizio o risposta, prima volée, seconda volée. I suoi avversari uscivano dal campo sconfitti, frustrati e freschi come rose. Non riuscivano nemmeno a sudare, a scaldare i loro passanti. Si ritrovavano a gestire poche palle scomode, basse e scivolose, alte e senza peso, lontane dal corpo. Riuscivano, ogni tre giochi, a tirare una sabongia angolata di diritto solo per vedersela tornare indietro una frazione di secondo dopo nell’angolo opposto. Seguivano il loro servizio e si ritrovavano a dover duellare di fioretto sottorete, finendo sempre sconfitti da un cavaliere biondo infallibile nelle stoccate.



Si potrebbero spendere migliaia di parole sulla specifica partita in cui Stefan, affrontando Mecir, decise di mettere in riga una intera generazione. Sul modo in cui rispose colpo sui colpo ad un tie break giocato alla perfezione da Pete, o scimmiottò gentilmente Ivan sotto il cielo australe restituendogli un colpo dietro la schiena effettuato dal ceco pochi punti prima.



Ai fini della nostra storia è però meglio concentrarsi sulla prima delle tre finali consecutive che resero il centrale di Wimbledon il giardino privato del nostro arcangelo e di Boris.
Sul match point del primo di quegli scontri Stefan serve una seconda: Bum Bum risponde di rovescio e si ritrova a dover fronteggiare l’ovvia volée. Ancora rovescio, ancora volée, gancio di diritto che Stefan ribatte con una palla corta. Boris corre verso la rete, sa che bucare il suo avversario ai lati è quasi impossibile, decide di tirargli la palla addosso.

E quindi Stefan dice ciao ad Annette, mette le vecchie Wilson in valigia e raggiunge Roger. Sin dalle prime interviste i due spiegano che Stefanello non intende snaturare il gioco di Dogana. Impensabile suggerirgli di attaccare su tutte le palle, i suoi avversari tirano troppo forte e troppo angolato. Certo ci sarebbero un paio di modi per fuggire dalla diagonale della morte sul rovescio… Ma no, niente voli pindarici. Stefan svolge il ruolo di motivatore, costringe Roger a dare il meglio davanti agli occhi del suo idolo giovanile. Si limita a suggerire un maggiore utilizzo del back.

La cura porta a qualche timido risultato. Si torna a vincere a Dubai, si conferma la tradizionale vittoria ad Halle. Roger attacca su qualche palla in più, ma non così tante. Gli Slam rimangono comunque un ricordo del passato.


È la semifinale di Wimbledon e Roger affronta Milos Raonic, un cristone canadese capace di affondare i suoi avversari sotto trenta Ace. Sono i primi punti della partita, Milos serve un bolide centrale a 220 km/h. Roger risponde con una palla tagliata di rovescio, lenta e profonda.

La segue a rete con tre passi. Per un istante i suoi capelli sembrano imbiondirsi. La volée è corta, Milos ci si avventa come un bufalo, carica il diritto per colpire il suo avversario.

Roger lo guarda con l’aria di chi ha, solo ora, finalmente compreso. Muove la racchetta con nonchalance, senza nemmeno guardare, guidato da una mano educata.

Oggi, sul centrale e sul 203, c’è Fedberg.




Enjoy.

venerdì, giugno 06, 2014

Avete letto Open



quindi ora sapete tutto quello che c’è da sapere su Andre.

Sbagliato. Qui è dove vi dico quello che non c’è scritto nel libro. Quello che sapreste se vi foste invaghiti dell’avversario di Martin Jaite, un buffo teenager ossigenato, incrociandolo su un campo laterale romano nel 1987. Una cotta destinata a durare un ventennio, consumata prendendo le sue parti in lunghe discussioni con vostro padre, l'inamovibile estimatore di Pete. Spendendo giorni e nottate davanti alla TV invece di limonare in discoteca. Consumando racchette e scarpe fluorescenti solo per.

Per dirvi quello che devo dirvi, debbo utilizzare un paio di filmati, che vi pregherei di osservare senza audio, in modo da lasciare spazio alla colonna sonora.




È  il 1989 e, davanti alle telecamere analogiche NTSC, Andre sfida Jimmy Connors, duraturo esponente della generazione di Borg, Vilas e Gerulaitis. Gente che indossava le cuffie in negozio per ascoltare il nuovo Led Zeppelin II e risparmiava per comprarsi la Ford Torino arancione con le ruote Magnum 500. 
Grazie alla biografia sapete che Andre ha preso molto male la spocchia con cui Jimmy lo ha ignorato negli spogliatoi, dimentico di tutte le racchette incordate per lui da papà Agassi e consegnategli personalmente dalla zazzera adolescente in un ristorante sulla Strip. Quello che il libro non dice è che quel match sarebbe dovuto durare tre set, non cinque. Perché il punto forte di Jimmy era un rovescio piatto sempre profondo, insidiosamente diretto nei pressi delle righe. Tu servivi contro Jimmy e lui ti rispondeva di rovescio, tu cercavi di spostare l’azione sul suo diritto mancino ma, appena possibile, Jimmy rimetteva la destra sul manico della Wilson in alluminio e pot! pot! pot! Lungolinea, incrociato e lungolinea, seguiti da volée a chiudere. Una invischiante ragnatela intessuta su 1253 vittorie e 24 anni. Uno schema in cui finirono mosche chiamate Ken Rosewall e Ivan Lendl.

Persino Andre lo stolto sa che il rovescio di Jimmy deve essere evitato, ma è così inviperito, così furioso davanti a tanta ingratitudine, che decide di vincere sfondando sulla destra. Vuole dimostrare di poter dominare il rovescio di Peter Parker martellando con il diritto in diagonale e, nel contempo, di poter finire i punti con il SUO rovescio, quello che non-sapete-chi-sono-io, io sono il parricida, la furia iconoclasta, il nuovo che avanza.

E quindi Andre picchia sulla destra del campo. Immaginatevi lo spettacolo dagli spalti del vecchio Louis Armstorng: il bamboccio serve al centro,  poi pem-pem-pem, incrociato, incrociato, incrociato. Potrebbe sfinire la vecchia leggenda affettando il campo in ogni direzione, invece le permette di rintuzzare ogni colpo con la sua arma migliore. 
La gioventù vince il primo set, ma nel secondo la tela inizia ad infittirsi. Il vecchio trama, paralizza il terzo con un netto 6-0, si carica ad ogni cambio campo, incitando il tifo del pubblico. Il match sembra prendere una chiara direzione, quando la leggenda inizia a rallentare. Le sue gambe si sono accorte dell'inedita stranezza con cui il ragazzo colpisce la palla. Il moccioso va incontro alle parabole, invece di posizionarsi come tutti in modo da colpire appena sotto la spalla. Intuisce la direzione della sfera, si dirige deciso verso il punto impatto con la racchetta già in movimento e BUM! Colpisce il feltro giallo mentre sta salendo. 

Stupido ragazzino, pur di anticipare metti in rete palle semplici pronte per essere chiuse a campo aperto. Insisti a giocare sul mio colpo migliore. Sei ingenuo e presuntuoso e pagherai per questo. Perché io ero qui da prima che tu nascessi. Io ero leggenda quando ancora giocavamo nel Queens, io sono la storia del tennis americano, io SONO il tennis americano e tu sei solo l’ennesima vittima della mia tela.

Questo pensa Jimmy mentre si passa sul viso un asciugamano ottenuto con fare guascone dalla raccattapalle di colore con le treccine. Lo pensa, lo dice ad alta voce, cerca di convincersi, ma si rende conto di essere davanti a quella curva nell’acqua, quell’increspatura destinata a diventare una lunga onda.

E perde.

Ora un bel respiro. Piedi saldi sulla tavola, ginocchia piegate, braccia aperte. L’onda monta, supera l’arrivo di Internet, IRC, i Nirvana, il rigore sbagliato da Donadoni, la caduta dell’URSS, il rigore sbagliato da Baggio, DOOM, buona parte di Maldini.


In esso il diciannovenne Rafael Nadal si appresta a giocare la sua prima finale sul cemento, al Canada Masters del 2005, dopo aver dominato la stagione sulla terra ed essersi aggiudicato Roma, Montecarlo e Parigi. 
Il suo avversario è un trentacinquenne pelato, con evidenti rughe ai lati degli occhi. È la stessa persona di cui parlavamo prima? In effetti no. Sono scomparse chioma, arroganza e jeans-scaldamuscoli fluo. Al loro posto due bambini, una moglie tanto appassionata quanto intransigente e una schiena malconcia.



Che diavolo ci fa un dinosauro del genere in campo contro la nemesi di Federer, Murray e Djokovic? Non sa che il mondo è cambiato? Il mondo ora è in mano agli atleti che calibrano la dieta tra carboidrati e aminoacidi ramificati, postano su Youtube le due ore di yoga e stretching giornaliere, si allenano per riuscire resistere a quattro ore di scatti sotto il sole. La AeroPro in grafite e tungsteno di Nadal è un cannone, le sue corde di Luxilon arrivano direttamente dalle suture chirurgiche. Il mondo è cambiato e ora tirano tutti più forte. Il tennis non è più bello e vario come una volta, nessuno fa più serve and volley, John non vedrebbe nemmeno la palla, ma ti ricordi quanto era bravo Leconte?

Purtroppo nessuno ha pensato di informare Agassi di tali cambiamenti. Non gli hanno detto nemmeno che il suo avversario è invulnerabile da entrambi i lati, che le sue palle arrotatissime buttano fuori dal campo tutti i campioni dell'ultima generazione, figurati quelli del 1970.

Andre tutte queste cose non le sa, quindi entra in campo e fa quello che ha fatto nei vent'anni precedenti. Qual'è il tuo colpo meno forte, moccioso? Il rovescio? 



Servizio ad uscire, diritto sul rovescio, sul rovescio, sul rovescio, sul rovescio, SUL ROVESCIO. 

Qualcuno dovrebbe avvisarlo. Qualcuno dovrebbe dire ad Andre che di fronte a lui c’è il dominatore dell'ultima era, accreditato come il più forte della storia. Almeno il nostro si adeguerebbe, smetterebbe di farlo correre come un tergicristallo, eviterebbe di aggredire quelle parabole da 5000 rpm ingestibili per chiunque altro.



Chi si è preso la briga di guardare tutto il match, sa che il finale segue un po' le orme di quello del 1989, con le gambe del vecchio destinate a fermarsi prima di quelle del giovane. Facile, direte voi, prendere un punto singolo, ignorando il punteggio complessivo.

A voi, solo a voi, dedico questo scambio: https://www.youtube.com/watch?v=CdU4vIUd8Dc

Lo vedete l'ultimo diritto di Nadal? Arrotato e lento, pensato per recuperare il centro del campo, posizionato nel sette opposto? Un marchio di fabbrica sfruttato negli anni per vanificare gli attacchi di Dogana, inchiodandolo nell'angolo e ribaltando una situazione sfavorevole. 

Ora guardate cosa fa Andre, guardate bene, una, due, tre volte. Forse è la reazione di un quasi quarantenne finalmente in pace con se stesso. Forse è il teenager che rialza la testa. Forse nel 1987 era amore vero e non una cotta.

Non credo abbiano ancora trovato un nome, a quella cosa lì. Ma vedete la distanza tra Rafa e quella palla pulita, bassa e filante? 

È la stessa che divide le cose lette da quelle vissute.