Alla fine del 2013, Roger avrebbe potuto ritirarsi. Mettetevi
nei suoi panni: eliminato nei turni preliminari degli ultimi tre slam,
sconfitto dai top ten in tutte le partite che contavano, dominato negli scontri
diretti dalla sua nemesi.
Il nostro, osservando il paesaggio di Bottmingen dalle ampie
vetrate della sua villa, ha alle sue spalle due gemelle che si rincorrono sul
parquet, una moglie che pensa già a dei fratellini, una fortuna accumulata
tramite gli sponsor e uno scaffale in cui un impressionante affollamento di trofei sottolinea come non ci sia più nulla da vincere, è tutto lì.
Licenziato Annacone, lo storico allenatore di Sampras, Roger
ha capito che il suo gioco non può subire ulteriori rifiniture. A tradirlo è
l'età, l'impossibilità di vincere gli scontri a fuoco più lunghi di tre set.
Non è bastata la nuova racchetta, non è stato sufficiente guarire la schiena,
perché tormentarsi con estenuanti allenamenti mattutini? Per racimolare una
manciata di giochi nei quarti di finale? Per un ultimo applauso di commiato?
Roger si avvicina al telefono. Basterebbe una chiamata e gli
addetti alle pubbliche relazioni informerebbero stampa, sponsor e associazione
giocatori dell'avvenuta decisione. Un bel messaggio di addio, una intervista
fiume alla BBC e poi una dolce pensione, spesa guardando le finali da Royal
Box, impugnando un calice di Perrier Jouet al posto della Pro Staff.
Roger si avvicina al telefono, apre l’agenda, compone un
numero.
Quello di Stefan Edberg.
Soundtrack: https://www.youtube.com/watch?v=pN60DR5GQpg
https://play.spotify.com/track/7bkjJHsfX2rebJ3KZLegGt
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Stefanello, sul campo e fuori, era un signore. Un distinto e
bellissimo scandinavo sempre educato con arbitri, guardialinee, raccattapalle.
La sua più focosa lamentela ebbe luogo al Roland Garros, quando un lob di Jim
Courier lo scavalcò su una fondamentale palla break finendo abbondantemente
fuori. Il guardialinee distratto non se ne accorse. L’arbitro pavido non ebbe
il coraggio di correggere la chiamata su un punto così importante. Stefanello,
dopo aver identificato con precisione il punto di impatto, volse lo sguardo
verso quest’ultimo e gli chiese “Are you sure?”
Questa signorilità si rifletteva nel suo gioco, composto da
un servizio in kick che non impediva agli avversari di rispondere, ma si
limitava a rallentarne l’azione. Il suo splendido rovescio ad una mano colpiva
indistintamente di piatto, arrotato o tagliato, ma non poteva compensare un diritto
sgraziato, effettuato con una presa chiusa, che nella migliore delle ipotesi
restituiva palle lente e lunghe. D’altronde tutto il gioco di Stefan puntava ad
una cosa e una soltanto: permettergli di scendere a rete.
La locuzione “scendere a rete” indica però una serie di
pratiche motorie che poco si addicono al modo in cui Stefanello si avvicinava
al net, perché lo svedese non si limitava a correre in direzione dei suoi
avversari. Stefanello volava. Con tre
impalpabili passi giungeva nei pressi della rete e lo faceva sulle sue prime,
sulle sue seconde e sui servizi avversari. L’antagonista gli serviva un bolide?
Lui rispondeva in chop una palla lenta e profonda, quindi spiegava le sue
angeliche ali, visibili solo agli osservatori più attenti, e “scendeva” a rete.
Una volta giuntovi risultava insuperabile, dominando
longitudinalmente l’intero campo. Inutile tirargli missili nei piedi, lui li
intercettava all’altezza delle caviglie e li indirizzava nell’angolo lontano
del campo. Vano sparargli dei colpi di mortaio da distanza ravvicinata.
Scavalcarlo con dei pallonetti? Un suicidio consapevole.
Per Stefan il Tennis era uno sport da tre colpi: servizio o
risposta, prima volée, seconda volée. I suoi avversari uscivano dal campo
sconfitti, frustrati e freschi come rose. Non riuscivano nemmeno a sudare, a
scaldare i loro passanti. Si ritrovavano a gestire poche palle scomode, basse e
scivolose, alte e senza peso, lontane dal corpo. Riuscivano, ogni tre giochi, a
tirare una sabongia angolata di diritto solo per vedersela tornare indietro una
frazione di secondo dopo nell’angolo opposto. Seguivano il loro servizio e si ritrovavano
a dover duellare di fioretto sottorete, finendo sempre sconfitti da un
cavaliere biondo infallibile nelle stoccate.
Si potrebbero spendere migliaia di parole sulla specifica
partita in cui Stefan, affrontando Mecir, decise di mettere in riga una intera
generazione. Sul modo in cui rispose colpo sui colpo ad un tie break giocato
alla perfezione da Pete, o scimmiottò gentilmente Ivan sotto il cielo australe restituendogli
un colpo dietro la schiena effettuato dal ceco pochi punti prima.
Ai fini della nostra storia è però meglio concentrarsi sulla
prima delle tre finali consecutive che resero il centrale di Wimbledon il
giardino privato del nostro arcangelo e di Boris.
Sul match point del primo di quegli scontri Stefan serve una
seconda: Bum Bum risponde di rovescio e si ritrova a dover fronteggiare l’ovvia
volée. Ancora rovescio, ancora volée, gancio di diritto che Stefan ribatte con
una palla corta. Boris corre verso la rete, sa che bucare il suo avversario ai
lati è quasi impossibile, decide di tirargli la palla addosso.
E quindi Stefan dice ciao ad Annette, mette le vecchie Wilson
in valigia e raggiunge Roger. Sin dalle prime interviste i due spiegano che
Stefanello non intende snaturare il gioco di Dogana. Impensabile suggerirgli di
attaccare su tutte le palle, i suoi avversari tirano troppo forte e troppo
angolato. Certo ci sarebbero un paio di modi per fuggire dalla diagonale della
morte sul rovescio… Ma no, niente voli pindarici. Stefan svolge il ruolo di
motivatore, costringe Roger a dare il meglio davanti agli occhi del suo idolo
giovanile. Si limita a suggerire un maggiore utilizzo del back.
La cura porta a qualche timido risultato. Si torna a vincere
a Dubai, si conferma la tradizionale vittoria ad Halle. Roger attacca su
qualche palla in più, ma non così tante. Gli Slam rimangono comunque un ricordo
del passato.
È la semifinale di Wimbledon e Roger affronta Milos Raonic,
un cristone canadese capace di affondare i suoi avversari sotto trenta Ace. Sono
i primi punti della partita, Milos serve un bolide centrale a 220 km/h. Roger
risponde con una palla tagliata di rovescio, lenta e profonda.
La segue a rete con tre passi. Per un istante i suoi capelli
sembrano imbiondirsi. La volée è corta, Milos ci si avventa come un bufalo, carica
il diritto per colpire il suo avversario.
Roger lo guarda con l’aria di chi ha, solo ora, finalmente
compreso. Muove la racchetta con nonchalance, senza nemmeno guardare, guidato
da una mano educata.
Enjoy.
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